” … quella sanguinosa, disperata battaglia che durò, pressoché ininterrotta, per più di trenta ore ed in cui rifulse il sovrumano e sfortunato valore dei battaglioni e dei gruppi della Julia e della Cuneense, che ne uscirono poco meno che distrutti”. Generale Faldella -“Storia delle truppe alpine”

Nella tarda mattinata del 19 Gennaio 1943, le unità di punta della colonna della divisione “Julia”  con il Gen. Ricagno e con i reparti dell’ 8° Reggimento e del Gruppo Artiglieria “Conegliano” arrivano nei pressi di Nowo Postojalowka. Sono unità  già logorate nel suo organico dal mese di durissimi combattimenti sulla Kalitvka, che sono riuscite ad evitare il contatto con le unità sovietiche che hanno sfondato le linee tedesche il 14 Gennaio e stanno procedendo a Nord, in parallelo con gli alpini della Julia. 

Nowo Postojalowka è’ un piccolo gruppo di isbe situato sulla pista che le Divisioni alpine in ritirata da sud devono percorrere sulla direttrice per unirsi con la “Tridentina” e il resto del Corpo D’Armata.

Ma è controllato da unità russe, per cui bisogna conquistarlo.

Il Battaglione “Gemona” viene mandato all’attacco con l’appoggio dell’artiglierie del Gruppo “Conegliano” posizionate a meno di 800 metri dall’abitato e seguito poi dai Battaglioni “Tolmezzo” e “Cividale”. Riescono a ad occupare le prime case del piccolo abitato ma i russi passano al contrattacco con alcuni carri armati tenuti in seconda linea e che iniziano a colpire, una a una, le isbee dove sono asserragliati gli alpini. Alla fine ci si deve ritirare e tornare alla linea di partenza dove i carri vengono fermati a stento dagli obici del “Conegliano” , obici che non sono adatti per tale scopo ma che sparando da pochi metri riescono almeno a danneggiare seriamente quei “mostri” d’acciaio.

Nella serata cominciano ad arrivare le unità di testa della colonna della divisione “Cuneense” guidata dal Gen. Battisti. Sono il Battaglione “Ceva” del 1° Reggimento con le batterie dei Gruppi “Mondovì” e “Val Po” . Viene deciso di sferrare un nuovo attacco poco prima che sorga l’alba.

Gli alpini del “Ceva” si gettano all’ assalto, appoggiati dagli obici dei gruppi di artiglieria  ma vengono respinti dai russi:  il “Ceva” è annientato. Si ripete la mattanza del giorno prima.

Alle 11 il nemico sferra un attacco con forze di gran lunga preponderanti, sostenuto da numerosi carri armati. La linea degli alpini viene travolta e superata, le batterie del Gruppo “Mondovì” e “Val Po” affiancate al “Conegliano”, vengono sottoposte ad un violentissimo fuoco di artiglierie. Alcune pezzi vengono letteralmente travolti dai carri armati.

La situazione sembra ormai definitivamente compromessa, quando un disperato attacco in campo aperto riesce a fermare i carri e le fanterie russe.

I russi propongono la resa, ma non viene accettata. Anzi, con il sopraggiungere del resto della “Cuneense”, i Generali Ricagno e Battisti concordano di procedere a nuovi disperati attacchi per aprirsi la strada.

Secondo alcuni fonti la mattina del 20 è l’ultima volta che la radio della “Cuneense” riesce a mettersi in contatto con il Comando del Corpo d’Armata, con la richiesta disperata di inviare i carri armati tedeschi disponibili per sfondare le linee russe. Richiesta che non viene accolta in quanto i pochi carri d’assalto di quel che rimane del  XXIV Panzerkorps tedesco (che ha proceduto di un giorno la “Julia” nella ritirata dal fronte sud), sono già impegnati ad aprire la strada alla colonna della “Tridentina” più a nord e che dal 19 è impegnata in combattimento sia verso Postojalyj sia per tenere aperto il varco di Opyt dove stanno ancora confluendo altre unità sbandate ungheresi e tedesche.

Ad uno a uno i battaglioni della “Cuneense” vanno all’attacco. Gli assalti si susseguono per tutta la giornata, infrangendosi contro i nidi di mitragliatrice posizionati nel villaggio e le sortite dei T 34 che seminano la morte tra le file italiane.

Il Generale Battisti prova un’ultima spallata, manda all’attacco quel che rimane dei Battaglioni “Borgo San Dalmazzo” e “Saluzzo”. Inizialmente sembrano aver successo, trovano un varco tra le linee russe sul crinale che va da Nowo Postojalowka a Kolkos Kopanki quando vengono improvvisamente colpiti da un violento fuoco di sbarramento e sono costretti a ripiegare lasciando una lunga scia di caduti.

A questo punto ci si deve arrendere all’evidenza dei fatti: non si può passare, non si può lottare contro i carri senza armi opportune; il rischio di accerchiamento è reale, non sapendo la consistenza dell’unità sovietiche che si hanno di fronte e che sembrano aumentare di ora in ora.

Battisti e Ricagno decidono di ripiegare e aggirare Nowo Postojalowka più a nord, perdendo ulteriore tempo, ma del resto l’alternativa è farsi annientare completamente sul posto. La notte dello stesso giorno le varie colonne con i sopravvissuti della “Julia” e della Cuneense” si rimettono in marcia.

Quel che resta del Battaglione alpini “Mondovì” viene lasciato di retrovia. Subisce durissimi attacchi. Le perdite sono ingenti, praticamente il Battaglione cessa di esistere, immolandosi nel coprire le spalle alle altre unità .

Dopo 20 ore di marcia forzata, soggette alle scorrerie delle pattuglie sovietiche, alcune colonne raggiungono Postojalvyi, alle 8 di sera sono a Alexandrowka dove c’è ancora un piccolo presidio germanico e dove gli alpini possono riposare qualche ora senza l’assillo degli attacchi russi. Di fatto le due divisioni alpine hanno ormai una capacità combattiva ridottissima. La “Cuneense” in realtà non esiste più.

Alla fine di 30 ore di combattimenti tra il 19 e il 20 Gennaio si stima che oltre 13.000 alpini, la maggior parte della “Cuneense”, sono rimasti sulla neve di Nowo Postolajowka.

Ma siamo solo al primo atto della tragedia…

All’alba del 21 Gennaio la colonna della “Julia” composta dai sempre più assottigliati Battaglioni del 9° Reggimento e dagli artiglieri dei Gruppi “Udine”, “Val Piave” e del comando regimentale del 3° Artiglieria si ferma a riposare presso il kolchoz di Lessinitschanski.

Ricagno, con il suo comando divisionale e alcuni supporti è appena ripartito quando si abbatte la furia dei carri armati russi.

Il massacro dura ore. E’ una lotta impari: senza più pezzi di artiglieria, si può opporre solo mitragliatrici e granate contro i T34 che crivellano di colpi a uno a uno gli edifici dove sono rifugiati gli alpini.

Alla fine non resta che distruggere le armi e arrendersi per fermare la carneficina. Un migliaio di alpini giacciono per terra esamini, un altro migliaio è ferito. Dei circa quattromila che si incamminano sulla strada del “Davaj” ne tornerà solo un centinaio. Tra questi non ci sarà il comandante del 9°, il Ten.Col. Lavizzari, che morirà nel campo di Krinovaja il 28 febbraio successivo per tifo petecchiale.

Qualche unità riesce a defilarsi e mettersi in salvo. Tra questi 170 alpini de “L’Aquila”, Battaglione che ha lasciato la Kalitwka con poco più di 300 uomini e che riesce a sfuggire all’attacco per poi prendere contatto in seguito con la colonna principale della “Tridentina”. Tra loro vi è il Ten. Prisco.

La STAVKA, il comando supremo dell’Armata Rossa, nel frattempo ha cambiato i piani operativi delle due armate sovietiche sfruttando il successo iniziale. La 40a Armata punta su Voronez, la 3a spedita verso Charkiv e il Dnepr. Per la STAVKA l’annientamento definitivo del C.A. Alpino e delle altre forze dell’ ASSE è solo ormai questione di giorni. Stanno preparando il “Comitato di accoglienza” lungo il tratto ferroviario che va da Valujki a Nikolajevka, mentre piccoli ma organizzati reparti con l’appoggio dei partigiani hanno il compito di presidiare i paesi per bloccare momentaneamente le varie colonne, logorandole e attardandole ulteriormente o di colpirle quando si fermano per riposare qualche ora. 

Il 21 è anche il giorno dove per un niente le 4 Divisioni non si riuniscono. Sono tutte raccolte in un fazzoletto di terra, ma non lo sanno. Nel pomeriggio a Nowo Charkovka si incontrano Battisti (Cuneense) con i resti della sua Divisione e Ricagno (Julia). Entrambi si chiedono dove sia Nasci e la “Tridentina”. In realtà sono a pochi km più avanti, hanno lasciato Nowo Charkovka poche ore prima e si trovano a Lymarewka dove si apprestano l’indomani ad assaltare Seljakino. Dopo poche ore transita nei pressi anche la colonna principale della “Vicenza” con il “Pieve di Teco”, che non si ferma tesa com’è all’inseguimento della “Tridentina” di cui almeno inizialmente doveva fungere da retroguardia.

E in queste ore che Nasci viene informato, tramite l’unica radio a lunga portata disponibile del XXIV Panzerkorps che Valujki, iniziale punto di approdo per il C.A. è in mano sovietica (lo è già dal 19/20 in realtà). Si deve cambiare meta, passare più a nord a Nikolajewka e velocemente, prima che i russi rafforzino lo sbarramento. Ma non ha mezzi per comunicarlo alle altre Divisioni di cui peraltro ignora la posizione e l’effettiva efficienza. Del resto neanche il 10 Febbraio, quando stilerà il rapporto sugli eventi di quei giorni non sarà in grado di dare informazioni precise su quanto capitato realmente alle altre tre Divisioni. Spera di vederle arrivare ma ne intuisce la fine ascoltando i rapporti dei pochi ufficiali sopravvissuti che si sono uniti alla colonna principale e che lo relazionano dei furiosi combattimenti sostenuti.

Senza la possibilità di comunicare, le varie colonne si sfiorano, si oltrepassano senza saperlo, in mezzo alle bufere, a -30°C. Portano i segni della stanchezza, del poco sonno, della fame e della continua tensione.  Solo così si spiega come la colonna con quel che rimane dell’8° Reggimento della “Julia” superi Nowo Charkovka convinta che sia in mano russa e proceda avanti fermandosi a Novo Georgiewkj. Sanno solo che devono dirigere verso Seljakino, sulla strada per Valujki.

Gli esausti Alpini sfuggiti dal tritacarne di Nowo Postojalowka passano una notte finalmente (e stranamente) tranquilla. Verso mezzogiorno del 22 si appresta a rimettersi in cammino quando iniziano a susseguirsi l’esplosioni. Si ripete la carneficina; uno scontro impari tra gli alpini che dispongono ancora di alcuni pezzi del Gruppo “Conegliano” e i carri sovietici. Ma l’esito è segnato, alla fine il comandante dell’8°, Col. Armando Cimolino, ordina che si depongano le armi per mettere fine al massacro.

Anche a Cimolino spetterà la sorte di Lavizzari e di migliaia di prigionieri italiani: morirà nel campo di prigionia di Oranki il 31 marzo seguente.

Come il giorno precedente alcuni reparti riescono a gruppi isolati a sganciarsi, infiltrandosi tra le pattuglie russe, come per esempio un drappello di artiglieri del “Conegliano” che riesce per caso a ricongiungersi con la “Tridentina” nella serata dello stesso giorno.

Dopo la “Cuneense” due giorni prima, anche la “Julia” cessa di fatto di essere un unità combattente.

Le colonne con i comandi delle divisioni  “Cuneense” e “Julia” e della divisione di fanteria “Vicenza” con quel che rimane di alcuni Battaglioni (“Dronero” e il “Pieve di Teco” che era in linea con la “Vicenza” e con cui ha fatto tutta la ritirata) continuerà a marciare verso Valujki, originale punto d’arrivo previsto dalle direttive senza essere informata che questa è saldamente in mano all’ Armata Rossa. Ormai sfiancati dopo 12 giorni di marcia e combattimenti , aver percorso circa 200 km  in condizioni atmosferiche proibitive, a corto di munizioni e armamento, sovrastati in numero dai russi, la sera del 28 Gennaio gli ultimi sopravvissuti sono costretti alla resa.

Secondo la Relazione del Gen. Nasci del 10 Febbraio 1943 saranno circa 3.300 gli Alpini della “Julia” che usciranno dalla sacca insieme alla colonna principale con i 6.500 uomini della “Tridentina”, mentre saranno solo 1.600 quelli della “Cuneense”. 1.300 i fanti della “Vicenza”.

Altri, ma sempre pochi, si aggiungeranno nelle settimane successive, tra chi è riuscito ad attraversare in piccoli gruppi le linee russe o chi , come alcuni raggruppamenti di salmerie che al 15 Gennaio si trovavano nelle retrovie a far rifornimento e vistesi tagliate fuori hanno percorso altre rotte completamente diverse eludendo i sovietici.