Facciamo chiarezza su un argomento che viene spesso usato per mettere in evidenza l’impreparazione del Regio Esercito in quel di Russia (e non solo in quel teatro di guerra).
Intanto una precisazione: sia al Corpo di Spedizione in Russia (CSIR) prima, sia all’Armata Italiana in Russia (ARMIR) poi, vennero fornite di quanto di meglio l’industria bellica italiana era capace di produrre all’epoca, anche se come dimostrato dagli eventi, spesso “il meglio” risultò o inadatto o ampiamente insufficiente per numero e/o qualità rispetto alla controparte. Incluse le calzature.
Gli scarponi in uso al Regio Esercito non erano di cartone pressato come si sente spesso dire. Erano sostanzialmente di buona qualità, con la tomaia in cuoio e la suola in legno e cuoio. Con una leggera chiodatura per le fanterie e la cavalleria, diversa per le truppe da montagna, che avevano una chiodatura più “robusta”, per ambiente montano appunto. Non erano poi troppo differenti da quelli in uso presso gli altri eserciti europei. Anzi questi scarponi furono perfino copiati ed impiegati dagli inglesi vista la loro flessibilità e robustezza.
Quindi erano adatti al teatro orientale ? la risposta è NO.
Erano stati concepiti per il clima più mite dell’Europa occidentale, tutt’al più alpino…non per i meno 30-35 gradi dell’inverno russo (peraltro nel 1941 e 1942 si registrarono gli inverni più freddi dell’intero secolo con punte oltre il meno 40).
E il problema nasceva proprio dalla chiodatura, che faceva filtrare l’umidità all’interno dello scarpone dove si ghiacciava, portando quindi al congelamento del piede. Come del resto ben sapevano i tedeschi dopo il primo terribile inverno in Russia, dove anche loro subirono un altissimo numero di perdite per congelamento, o gli stessi russi che adottavano i “valenki”, le calzature tradizionali invernali e perciò in dotazione anche alle forze armate. Quest’ultimi fatti di feltro di lana di pecora, senza cuciture ottenuti per stampaggio e successiva infeltrizzazione della lana con metodo industriale, capaci di mantenere perfettamente i piedi isolati dalla neve e dal freddo.
Gli unici che disponevano di scarponi migliori erano pochissimi reparti specializzati, tra cui gli Alpini sciatori del “Monte Cervino”, che disponevano di scarponcini con la suola in gomma, senza chiodatura “esterna”: la famosa, per molti di noi, “Vibram”, dal nome della fabbrica che l’aveva ideata e prodotta.
Un altro fattore che rese gli scarponi particolarmente vulnerabili furono gli sbalzi termici: il cuoio, non sempre di buona qualità, infatti tendeva letteralmente a spaccarsi quando, bagnato, passava dalle basse temperature esterne a quelle più calde (dell’interno di un’isba o per la vicinanza ad una stufa per esempio).
Al di là di questi non trascurabili “problemi tecnici” però il problema reale per i nostri militari in Russia era la scarsa capacità da parte di quella che oggi chiamiamo logistica, di approvvigionare e sostituire i nostri reparti degli equipaggiamenti che a causa dell’interminabili marce su fango, neve a temperature glaciali venivano sottoposti ad un pesante logoramento, scarponcini inclusi. Problema accentuato ulteriormente al momento in cui si costituì l’ARMIR, dove si passò da dover rifornire i 65.000 uomini del CSIR a rifornirne 220.000.
Ecco così che si venne a creare l’ulteriore desolante tassello di quei tragici giorni.
Fonte : “Historia Regni”, “Museo Delle Forze Armate 1914-1945”
Grazie del chiarimento! Davvero prezioso, specie per chi – come me – ha avuto un familiare morto in quella campagna: io mi chiamo come lui, Sergio Sammartino, fratello minore di mio padre e giovane capitano della Julia, specializzato in artiglieria alpina. Cadde a Smolensk il 20 gennaio del 1943, quando il suo “pezzo” fu colpito dall’artiglieria nemica.
Anche la mia famiglia ha avuto una perdita in Russia mio zio un Alpino fratello minore di mio padre che era in Africa cavalleria che è ruscito a tornare ..un altro fratello cadde dopo l’armistizio dove la divisione ACQUI venne distrutta dai tedeschi.i nomi dei caduti Menti Rino Alpino
Menti Fabio e mio padre che torno Menti Alessandro !Luigino Menti
Una bella precisazione che sfata un mito senza però eliminarne la drammaticità.
Mio nonno era a Kantemirovka, dove c’era il punto di rifornimento, ad 80 km dal fronte del DON.
Pur non essendo un alpino, ebbe anche lui la sua odissea e tornò a casa solo dopo il ’46.
Onore a tutti coloro che caddero nelle nevi russe.
Ottima risposta per i soliti disfattisti dell esercito italiano