Premessa

Malgrado siano passati 80 anni ormai non è ancora possibile, e probabilmente non lo sarà mai, conoscere l’esatta entità dei “caduti e dispersi” di quei tragici avvenimenti che coinvolsero il Corpo D’Armata Alpino nel Gennaio 1943.

Parte di questa incertezza è data dalla mancanza di un primo dato di riferimento importante, ovvero il numero degli effettivi reale di ciascun reparto al momento dell’inizio degli eventi. Mancanza dovuta al fatto che la maggior parte dei ruolini sono andati persi durante quei tragici giorni o sono comunque pervenuti incompleti.

Se nei primi giorni, furieri, comandanti di plotone e compagnie riuscirono a tener di conto dei caduti certi in combattimento, era già impossibile per loro sapere la sorte di quelli che non rispondevano all’appello che potevano essere stati fatti prigionieri come invece potevano essersi congiunti ad altre unità una volta perso contatto con la propria. Situazione che peggiorò poi con il progredire degli eventi, con l’ulteriore frammentazione dei vari reparti e con la scomparsa degli stessi ufficiali con le loro note.

Neanche il primo “filtraggio” eseguito a Šebekino si può ritenere un dato certo, se non preso per avere un primo riferimento, a grandi linee.

Inoltre i depositi documentali del Regio Esercito dei Reggimenti in questione, tutti ubicati nel nord Italia subirono il saccheggio da parte delle truppe tedesche d’occupazione dopo l’8 Settembre, rendendo ulteriormente difficoltosa in seguito la ricerca dei ruolini e dei fogli matricolari.

Freddi numeri

L’Ufficio Storico della Difesa dopo una lunga ricerca ha pubblicato i seguenti numeri riguardanti le perdite per il Corpo D’Armata Alpino:

Se si considera che gli effettivi del C.A. si attestavano a circa 68.000 (1) uomini tra ufficiali e truppa, si ha quindi che la percentuale dei “caduti e dispersi” è intorno al 65%.

Se si considerano i soli alpini (circa 58.000 uomini) la percentuale è del 63%.(2)

Numeri che fanno inorridire se raffrontati per esempio con le perdite dei Battaglioni Alpini impegnati sull’Ortigara nella sanguinosa battaglia del 1916, dove i “caduti e i dispersi” furono circa il 16% degli effettivi impiegati (circa 25.000 alpini).

Senza considerare che non sappiamo quanti di quei 9.910 tra congelati e feriti siano deceduti in seguito.

Se allarghiamo poi il discorso all’intera 8a Armata (ARMIR) il quadro delle perdite è (3):

Quindi ai 41.010  morti e dispersi del C.A. Alpino si devono aggiungere altri 43.490 uomini, per un totale quindi di 84.950.

Su una forza di circa 230.000 (4) effettivi  siamo intorno al 37 %. Oltre il doppio della Campagna di Grecia, che ricordiamo fu come numero di mezzi e uomini impiegati la più grande operazione bellica del 2° Conflitto mondiale condotta dal Regio Esercito.

Caduti e Dispersi

Per quanto già elencato non è facile conoscere con esattezza chi tra questi 84.950 sia deceduto nei combattimenti e chi sia stato fatto prigioniero dell’Armata Rossa.

Va considerato del resto, durante il conflitto , l’operato delle opposte propagande, con una parte che minimizzava e l’altra che ingigantiva (5).

Neanche la successiva situazione politica nell’Italia post-conflitto è stata d’aiuto inizialmente per far chiarezza , rendendo quindi le stime sempre piuttosto imprecise(6). Si dovranno aspettare decenni prima che si possano delineare i numeri, anche se  sempre con una certa approssimazione, causata da quanto esposto in precedenza.

Ulteriori ricerche condotte dopo il 1990 in seguito all’apertura degli archivi dell’ex U.S.S.R.  hanno fatto propendere gli storici e i ricercatori che il numero reale di “caduti e dispersi” sia più vicino a 95.000 che agli 85.000 indicati precedentemente nei rapporti dell’Esercito Italiano.(7)

Di questi, 25.000 sarebbero effettivamente caduti nei combattimenti tra la metà di dicembre del ’42 e il Gennaio ’43, gli altri 70.000 sarebbero invece stati fatti prigionieri.(8)

Solo 10.085 soldati dell’ ARMIR hanno fatto ritorno in Italia tra il 1945 e il 1954 dall’ Unione Sovietica. (9)

Dei 60.000 che non hanno fatto ritorno 22.000 sarebbero deceduti nelle terribili marce del “Davaj” o negli altri infernali trasferimenti in treno verso i “lager” (10) situati in posti remoti del vasto territorio sovietico e dove avrebbero poi perso la vita a causa degli stenti e delle malattie i restanti 38.000 e di cui a poco più di 20.000 è stato possibile fino ad oggi dare un nome e cognome. (11)

NOTE:

  1. Dato teorico preso dalla composizione “standard” di una divisione. Una divisione alpina si attestava tra ufficiali e truppa sui 16.500-16.800 effettivi, numeri superiori rispetto ad una normale divisione di fanteria per la massiccia presenza di muli e relativi conduttori, la “Vicenza” tra i 9000 e i 10.000 uomini. Stime appunto. Rimane per esempio non completamente chiarito l’inquadramento dei 2.000 alpini del Battaglione complementi della “Cuneense”, che arrivato a Rossosch in concomitanza con l’attacco dei sovietici rimase coinvolto nei combattimenti riportando gravissime perdite.
  2. Bisogna tener presente che al Corpo d’Armata Alpino, oltre alla Divisione “Vicenza” erano stati assegnati sia inizialmente sia nel corso della campagna, altri reparti non alpini, specialmente di artiglieria e di altri servizi.
  3. Il XXXV Corpo d’ Armata era composto dalla Divisione Pasubio e dalla 298a Divisione di Fanteria tedesca.
  4. Nella relazione dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, edita nel 1946, a pagina 6 è detto che l’ARM.I.R. era un complesso di forze sommate a più di 220.000 uomini e 7.000 ufficiali. Nel quadro delle perdite riportato nell’allegato 1 dello stesso volume, queste sono confrontate con la consistenza organica all’inizio della battaglia rilevata in 221.875 soldati e 7.130 ufficiali per un tale di 229.005 uomini. 
  5. Per ovvi motivi il regime fascista non aveva alcun interesse a “pubblicizzare” la disfatta in terra di Russia e quindi non pubblicò mai un rapporto sulle perdite. Di contro la propaganda sovietica e in particolare quella gestita dai comunisti italiani in esilio gonfiava i numeri arrivando perfino a parlare di più di 130.000 tra caduti e prigionieri. Un’ altro tassello che dovrebbe far dubitare del “famoso” bollettino sugli alpini imbattuti.
  6. Dopo il conflitto il Partito Comunista  tendeva a sminuire i numeri per voler dimostrare la bontà del modello sovietico specie nel trattamento dei prigionieri di guerra. Alla fine però prevalse la linea generale di acquietare il tutto, compreso la questione degli I.M.I., al fine di non alimentare ulteriori tensioni, in un periodo tutt’altro che politicamente stabile. 
  7. Rapporto sui “Prigionieri di guerra italiani in Russia” a cura di Carlo Vicentini e Paolo Resta, fonte UNIRR, 2a edizione, anno 2005, probabilmente il documento più affidabile.
  8. Secondo tante testimonianze, dopo la cattura i prigionieri venivano spogliati di tutti i beni che avevano, soldi, orologi, documenti, spesso anche degli indumenti pesanti. Messi in fila veniva poi posta la fatidica domanda a ciascun prigioniero: “Nemckij?”, cioè “Sei tedesco?”. Se la risposta era affermativa, la possibilità che il malcapitato venisse immediatamente passato per le armi era molto elevata. Sorte riservata anche alle “camicie nere” e ai feriti non in grado di muoversi.
  9. Dei circa 22.000 italiani rimpatriati in totale, 12.000 erano Internati Militari Italiani (I.M.I.), “liberati” dai russi durante la loro avanzata verso ovest. Tra questi anche il Gen. Reverberi, comandante della Divisione “Tridentina”.
  10. Contrariamente alla vulgata comune i campi di concentramento sovietici si chiamavano “Lager” come quelli tedeschi e non “Gulag”. GULAG (GULag per l’esattezza) era l’acronimo della “Direzione principale dei campi di lavoro correttivi” l’apparato quindi che si occupava della loro gestione.
  11. Si fa notare che si stima che dei circa 170.000 prigionieri tedeschi fatti dai russi fino a metà del 1943 solo 6.000 abbiamo fatto ritorno a casa dopo la guerra. La consapevolezza per i tedeschi della sorte che gli spettava se caduti in mano sovietica, è una delle cause dei comportamenti poco “amichevoli ” nei confronti degli alleati, italiani o ungheresi che fossero, durante la ritirata.